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Aggiornamento sul caso "Cocaweb" - La risposta degli esperti

Vi ricordate di “Cocaweb”? Si tratta del libro scritto dal senatore Cangini in cui viene spiegato come i videogiochi abbiano sui giovani lo stesso effetto della cocaina. Ciò che ai tempi aveva suscitato scalpore erano proprio le parole scelte dal senatore durante il suo intervento a Speciale TG1 per descrivere il fenomeno. L’eccessiva generalizzazione dei termini usati aveva scatenato le reazioni di molti gamers e youtubers. A ciò però si è aggiunta di recente anche la risposta da parte di diversi psicologi e accademici che hanno scelto di dire la loro tramite una lettera aperta in cui vengono riportati dei dati scientifici. L’iniziativa è nata dalla psicoterapeuta Viola Nicolucci, dal giornalista Mario Petillo e dall’accademico Francesco Toniolo, i quali hanno tenuto ad approfondire i punti in cui il senatore Cangini era stato estremamente approssimativo. Vi trascrivo la lettera qui di seguito.


Il 12 aprile 2022, il Senatore Andrea Cangini, componente della Commissione Istruzione al Senato, è intervenuto a Speciale TG1 presentando il suo ultimo libro “Coca Web: una generazione da salvare” e raccontando di aver fatto proposte di legge per governare il web. Il senatore ha raccolto gli interventi di psicologi, neurologi, pedagogisti, grafologi che hanno studiato l’impatto del web sui giovani. Tutte le forme del disagio giovanile vengono ricondotte all’uso delle nuove tecnologie: smartphone, social media e videogiochi. Il discorso parte dal web, ma in trasmissione e sui social Cangini parla in larghissima misura di videogiochi, ripetendo che “l’uso non può che degenerare in abuso”.


Le informazioni trasmesse peccano di eccessiva generalizzazione, non vengono presentati dati. A giorni di distanza, la discussione online non si è ancora spenta, ed emerge sempre più il desiderio di un confronto, anche in considerazione del fatto che in televisione non c’è stato spazio per un contraddittorio. Proviamo dunque a cogliere l’opportunità di farlo qui. I ricercatori che si occupano di nuove tecnologie sanno che non si può parlare di schermi in termini generali, perché questi rappresentano un contenitore di stimoli diversi: social media, video su vari argomenti, videogiochi e persino lezioni scolastiche a distanza, soprattutto negli ultimi 2 anni per l’ emergenza Covid-19.


Si rischia di cadere nel panico morale, quel fenomeno per cui la società percepisce un evento inedito (qui la diffusione di internet e dei videogiochi) come una minaccia prima che ce ne siano le evidenze. I media fomentano l’ansia del pubblico, descrivendo il fenomeno attraverso semplificazioni che talvolta sfociano nella banalizzazione e portano all’amplificazione. Spesso in questo ciclo intervengono figure appartenenti alle autorità, che sposano l’opinione pubblica per conquistarne il consenso. Il panico finisce così per stigmatizzare i videogiochi e presentare i giovani descritti come vittime passive, dipendenti e incapaci di autodeterminarsi. In passato ad esempio sono stati oggetto di panico morale la musica rock e i giochi di ruolo e oggi è il turno delle nuove tecnologie con i social media e i videogiochi. Il panico nasce da una disconnessione tra generazioni, dove chi è nato prima definisce le proprie esperienze come misura del bene e del male.


Quando si parla di nuove tecnologie non può mancare un riferimento alla tanto discussa quanto fraintesa dopamina, un neurotrasmettitore, cioè una sostanza che trasmette informazioni nel cervello. La dopamina viene associata al consumo di droga, mentre un suo aumento si manifesta anche in seguito ad alimentazione, sport, sesso, lettura, apprendimento, meditazione e videogiochi. I circuiti della dopamina durante il gaming si attivano quando il giocatore attende di vedere l’effetto delle sue azioni di gioco: se le sue aspettative vengono confermate, i circuiti della gratificazione che servono a consolidare l’apprendimento si attivano. Il problema non è il rilascio di dopamina nel cervello, ma la quantità rilasciata. Uno studio di Koepp e colleghi (1998) rivela che giocare ai videogiochi aumenta i livelli di dopamina nel cervello del 100%, ma la differenza tra il gaming e una droga come le metanfetamine è che queste aumentano il livello di dopamina del 1000%.


I videogiochi sono un universo vario almeno quanto il mondo del cinema. Alcuni videogiochi utilizzano tecniche di monetizzazione per aumentare i guadagni, ma questi elementi possono comunque essere evitati dai giocatori. Una ricerca di Zendle e colleghi (2020) mostra un’associazione tra acquisti in game e gioco d’azzardo, ma i dati non consentono di stabilire una relazione di causa-effetto.

È vero che, durante la crescita, i meccanismi di controllo dei minori non sono ancora maturi e il design del videogioco non deve approfittare di questa vulnerabilità. Per questo stanno nascendo nella game industry movimenti etici come ethicalgames.org, il cui obiettivo è raccogliere a un tavolo condiviso i rappresentanti dell’industria e i ricercatori internazionali per stilare linee guida che salvaguardino i consumatori.


Il gaming problematico è una condizione che interessa circa il 3% della popolazione mondiale. La ricerca ha dimostrato che l’abuso di gaming è provocato da una frustrazione di bisogni motivazionali (competenza, autonomia, socializzazione) all’interno del contesto sociale, familiare o nel gruppo dei pari. I videogiochi non sono dunque la causa, ma rappresentano uno strumento di compensazione in caso di disagio. Eliminare il gaming dalla vita di chi abusa senza cercare di capire la radice del problema aumenta il rischio che quel disagio irrisolto trovi semplicemente altre forme di espressione.

Il fenomeno del gaming in Cina e Corea ha radici diverse dalla realtà dell’Occidente. Il successo del gaming in Oriente è legato al contesto socio-culturale e ai problemi politici ed economici, che hanno spinto parte della popolazione fuori dal mondo del lavoro e dentro agli internet cafè.


L’OMS ha chiesto sì il riconoscimento dell’abuso di gaming come patologia, ma in concomitanza con l’esplosione di pandemia di Covid ha appoggiato la campagna #PlayAPartTogether per promuovere il gaming multiplayer online come strumento di socializzazione a distanza, nel rispetto del distanziamento sociale. Questa presa di posizione mostra un ridimensionamento dell’allarme associato al gaming e una riflessione che tiene conto del contesto del fenomeno.


Nello stesso anno - 2020 - la Food and Drug Administration ha approvato il videogioco Endeavor Rx come primo trattamento di medicina digitale dell’ADHD in età pediatrica: un videogioco per curare i problemi di attenzione e l’Oxford Internet Institute ha pubblicato una ricerca che dimostra che il tempo di gioco sembra essere legato al benessere dei videogiocatori: giocare di più non indica un disagio psicologico.


Si parla di minori e giovani per toccare le famiglie, ma difficilmente si parla con i giovani, come se questi non avessero le capacità di sostenere un confronto diretto.


Spegnere il web non cancellerebbe il disagio giovanile. Se si desidera una vita bilanciata tra reale e digitale bisogna offrire ai giovani alternative: spazi di aggregazione sociale e modelli autorevoli, opportunità democratiche di studio che consentano a tutti i minori di imparare a usare il digitale che rappresenta il futuro del mercato del lavoro, perché la radice del disagio giovanile oggi è che in questo contesto i ragazzi un futuro non riescono a immaginarselo.


Invitiamo quindi, il Sen. Cangini a riconsiderare la sua posizione in base a quanto qui espresso, e ad aprire un dibattito che gli possa permettere di confrontarsi con professionisti - specializzati nel settore - che siano in possesso di altri dati, per integrare la sua ricerca.

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