Chi difende Selvaggia Lucarelli? I danni dell'Effetto Spettatore
Poco più di un mese fa abbiamo assistito allo sciopero nazionale dei tassisti durato ben 48 ore in diverse città italiane. Due giorni che potrebbero tranquillamente essere intitolati “Ci scusiamo per il disagio”. Non mi riferisco solo alle difficoltà di spostarsi, ma anche ad alcune frasi davvero spiacevoli urlate al megafono a squarciagola, come ad esempio quella rivolta alla giornalista Selvaggia Lucarelli, giudicata da una piazza intera con l’epiteto “puttana”.
Forse alcuni di voi l’hanno rimossa o non ne hanno addirittura mai sentito parlare, ma io quella scena me la ricordo bene. Se da una parte, infatti, ero distesa a letto con 38 di febbre e pregavo con tutta me stessa di guarire in tempo per le mie vacanze estive, dall’altra condividevo la perplessità di alcuni influencer (tra cui Giulia De Lellis) che, giustamente, si chiedevano… Ma perchè nessuna testata difende la collega?
Per chi non la conoscesse bene, stiamo parlando di una giornalista nota per un’ironia pungente non sempre apprezzata e che spesso e volentieri esprime sul suo profilo Instagram, social in cui tende a riportare infrazioni segnalatele dai followers.
Un esempio? I tassisti che si rifiutano di utilizzare il POS.
Per farla breve, si tratta di una persona che tende a dividere l’opinione pubblica in due fazioni: chi la odia e chi la ama. Eppure, al di là delle simpatie personali, non si può negare che in quella situazione avesse subito degli insulti davvero pesanti che, se non per vie legali, meritavano di essere quantomeno denunciati su carta.
Cosa ha frenato dunque la maggior parte dei colleghi giornalisti dal prendere le sue difese? Che l’effetto spettatore abbia definitivamente raggiunto il mondo dell’online?
Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, Wikipedia definisce l’effetto spettatore “un fenomeno della psicologia sociale in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in situazione di emergenza, quando sono presenti anche altre persone”.
Il termine nacque nel 1964 dai due psicologi sociali John Darley e Bibb Latanè a seguito dell’assassinio di Kitty Genovese, una ventinovenne di Manhattan brutalmente pugnalata nel Queens, a New York. La vicenda durò in tutto mezz’ora e, nonostante le urla e la presenza di testimoni auricolari e oculari, nessuno si interessò ad approfondire che cosa stesse realmente accadendo alla giovane donna. Nel 1968 venne quindi approfondito per la prima volta che cosa effettivamente fosse il “Bystander Effect” o “Bystander Apathy” sul Journal of Personality and Social Psychology. Il fenomeno può essere così sintetizzato: più individui sono presenti sulla scena, meno si diventa propensi ad aiutare una persona in difficoltà. La presenza di altri spettatori, infatti, riduce i sentimenti di responsabilità individuale e fa decrescere la velocità della reazione. Ai più potrebbe suonare come indifferenza, quando in realtà si tratta di porre una maggiore attenzione alla reazione di ogni individuo lì presente.
A ciò si aggiunge che la diffusione di responsabilità tende ad accentuarsi quando il comportamento degli altri non può essere osservato direttamente. In quel caso, infatti, la propria inazione può essere giustificata: ci penserà sicuramente qualcun’ altro.
Insomma, occhio non vede, cuore non duole.
E qui veniamo alla nostra domanda: tutto questo è possibile online? La risposta è sì.
Internet è strano: da una parte accorcia le distanze tra noi e ciò che c’è dietro lo schermo, dall’altra le estende a dismisura. Siamo in grado di percepire la gravità di alcuni avvenimenti, ma si ha sempre la sottile sensazione di assistere ad uno show che non ci tocca mai per davvero da vicino. In più, il nostro metro di giudizio viene facilmente influenzato dal numero di interazioni sotto il video o il post che stiamo osservando. Il tutto fa sì che la nostra attenzione sia catturata nel giro di pochi secondi, salvo poi mettere quell’informazione nel dimenticatoio insieme a tutti gli altri stimoli che si susseguono rapidamente uno dietro l’altro.
Questo non è necessariamente un male: spesso è possibile raggiungere alcune realizzazioni proprio durante la quiete che segue la tempesta. Eppure, sembra che ciò che conti maggiormente nel giornalismo di oggi sia soprattutto il consenso ottenuto nel pieno del caos: non è più l’occhio esterno di chi scrive a raccontare il più obiettivamente possibile la scena, ma sono i protagonisti che urlano (in questo caso al megafono) a diventare i veri padroni della situazione. Anche di ciò che viene scritto.
Che succede se difendo la Lucarelli? Otterrò insulti da parte di coloro che la odiano, come i tassisti? Neanche gli altri giornalisti stanno scrivendo niente… Magari prima o poi qualcuno dirà qualcosa, ma quel qualcuno non sarò io.
In questi casi è umano pensare che fare un passo indietro e attendere che le acque si calmino sia la scelta migliore. Il problema è che Internet non solo amplifica il senso di ambiguità e di paura, ma anche le conseguenze di una presa (o, in questo caso, di una non presa) di posizione. Per questo diventa ancora più importante riportare con i piedi per terra chi osserva la scena e ricordare che la violenza, anche se può apparire distante e intangibile, è reale. Un obiettivo che può essere ottenuto solo con il coraggio di compiere un passo in avanti.