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Comico o Eroe? Il potere dei Social Media

La guerra Russia-Ucraina è diventata in pochi giorni una questione di interesse mondiale. Tutti noi abbiamo avuto i brividi di fronte alle minacce del presidente russo Vladimir Putin rivolte ai Paesi europei: “Se intervenite, ci saranno conseguenze come non ne avete mai viste”. Chissà se, fra queste, aveva tenuto conto della piega “social” che avrebbe assunto questo conflitto.


Come ha scritto ieri il Wall Street Journal, sia Ucraina che Russia stanno cercando di utilizzare i media a proprio vantaggio. In questi giorni, ad esempio, le fake news messe in giro dai media russi sul presidente ucraino Zelensky e sulla sua presunta richiesta di deporre le armi erano sulla bocca di tutti. L’ex comico, però, è stato più veloce: “Sono qui” ha ribadito “Difenderemo il nostro Stato perché la nostra arma è la nostra verità. E la nostra verità è che questa è la nostra terra, il nostro Paese, i nostri figli e difenderemo tutto questo. Gloria all’Ucraina”. Il video, girato sabato 26 febbraio, è diventato virale in poche ore.


Uno fra i tanti discorsi da standing ovation che il leader ucraino ci ha regalato e che hanno portato la sua popolarità alle stelle. Alcune fra le testate giornalistiche più famose al mondo hanno celebrato il suo sfavillante carisma, definendolo un vero e proprio eroe.


È certamente innegabile che Zelensky abbia infatti sfruttato il potere dei media a suo vantaggio: se non fosse per i social, non avrebbe ottenuto in così poco tempo un tale livello di partecipazione anche dagli altri Paesi e non sarebbe riuscito a smentire così velocemente le notizie false sul suo conto. Eppure, non tutti colgono quanto sia pericolosamente diventato ancora più facile creare un'opinione di massa.


Non stiamo parlando di nulla di nuovo: dare etichette è da sempre una tendenza intrinseca nella natura umana. I social hanno semplicemente aggiunto quel pizzico di godimento narcisistico nel sapere che il proprio pensiero può essere letto da milioni di persone. L’opinione di ognuno acquisisce quindi un peso specifico che, tutte insieme, danno vita ad un’unica e potente voce capace di smuovere le cose.


Prendiamo ad esempio il ruolo dell’Europa e della NATO nel conflitto Russia-Ucraina. Pochi giorni di tentennamento e già circolavano i primi meme su quanto fossero prevedibili e su come la storia non avesse insegnato loro niente. Improvvisamente, ecco la posizione netta che tutti stavano aspettando, con pesanti sanzioni imposte alla Russia. Perfino la Svizzera, da eterna neutrale, ha preferito esporsi. Per quanto questo sia da considerare un successo, sorge comunque un dubbio: che il popolo sia diventato ancora più sovrano di quanto già non fosse? Che i social media abbiano consentito di premere l’acceleratore su una decisione che avrebbe richiesto qualche giorno in più prima di essere presa?


Non potremo mai saperlo. Ciò che però non possiamo ignorare è la risonanza che questi strumenti di comunicazione hanno sulle nostre vite. Daniel MacInerney, membro della British Psychological Society, aveva commentato in un articolo il fenomeno della patocrazia, per cui individui con disturbi di personalità raggiungono il potere. Nel suo discorso aveva sottolineato come fosse un dovere di noi psicologi tenere conto non solo del contesto socio-culturale, ma anche del ruolo dei media nel sorgere di questo fenomeno.


Ciò che afferma Maclnerney è sacrosanto, anche se non concordo con la descrizione dei mezzi di comunicazione di massa, inclusi i social media, come di qualcosa esterno a noi che ci ha “trasformato” nel tempo. Il senso di un vuoto da colmare, la fatica di accettarsi per ciò che si è, il confronto con gli altri, il bisogno di essere guidati, hanno sempre fatto parte dell’uomo. Il contributo di questi strumenti è stato semplicemente quello di acutizzare quelle vulnerabilità già difficili da guardare negli occhi, incentivando ancora di più la ricerca verso un leader (o, come a me piace pensare, verso una “mamma”) da investire di qualità inimmaginabili. Ciò è accaduto sia con figure più “negative” che “positive”: Hitler, Mussolini, Trump, ma anche Obama e Draghi sono altri esempi.


Toni Morrison, scrittrice statunitense vincitrice del premio Pulitzer e del premio Nobel per la letteratura, disse: “Le definizioni appartengono ai definitori, non ai definiti”. La necessità di etichettare e la velocità con cui i social media ci permettono di farlo, conferma un bisogno profondo da soddisfare e un senso di vuoto rappresentativo non solo di una generazione, ma del funzionamento stesso dell’essere umano.


Come si può ovviare a questo meccanismo? Il filosofo Bookchin nel 2005 suggeriva la necessità di smantellare le nostre strutture gerarchiche. In altre parole, mettere in discussione il nostro assetto mentale impostato sulla gerarchia, che ci porta alla costante ricerca di qualcuno che ci possa guidare. Idealmente è una buona soluzione, il problema è che richiede tre elementi: tempo, fatica e coesione. Fino a che questi fattori non si allineeranno, non si potrà ottenere una vera e propria evoluzione rispetto al passato. Il meccanismo si ripeterà ancora e ancora, mentre noi saremo in attesa del nuovo “eroe” che ci salverà.

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