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Perché è difficile chiedere scusa? Il caso di Emma Marrone

In questi due giorni non si è parlato praticamente d’altro che della discussione tra la cantante Emma Marrone e il giornalista Davide Maggio. Quest’ultimo, commentando l’outfit da lei indossato al Festival di Sanremo, ha deciso di esporsi: “Se hai una gamba importante non indossi le calze a rete”. Emma ha quindi risposto tramite una storia Instagram, definendo l’opinione del giornalista imbarazzante, rivolgendosi poi a tutte le donne per invitarle a non ascoltare certi commenti che incitano al body shaming.


Fin qui nulla di nuovo. Tuttavia, uno dei punti più interessanti è stata la reazione del critico televisivo, che riporto qui: “Il problema è il fatto che le critiche non vengano accettate. In quel caso non era neanche una critica, perché era semplicemente un commento estetico normalissimo. Punto. Invece la cosa interessante è l’accettazione. Questo è il messaggio che dovrebbe far passare, perché io credo che Emma sia proprio una mancata accettazione di qualcosa. Mi sono fatto questa idea, perché se tu te la prendi così tanto da dire nella tua diretta - Benvenuti nel Medioevo - per una gamba importante, vuol dire che sei tu che vedi la gamba importante come un problema. Il problema è tuo, non mio. Perché a me va benissimo così. Non ho detto - Oddio, ha messo una calza a rete, buttatela fuori dal palco! -, ha messo solo una calza a rete che era inopportuna per me. Punto e basta. Fine della storia e amici come prima. Senza fare una cosa grave (come quella che fai sempre) di scatenare queste shitstorms insopportabili che sì, nei confronti di qualcuno non strutturato come me qualche effetto lo possono sortire. Al mio paese quello che fai si chiama bullismo”.


Dopo aver ascoltato (e trascritto) queste parole, non ho potuto fare a meno di chiedermi… Perché è così difficile chiedere scusa?


Partiamo col dire che, in questa specifica situazione, penso che Davide Maggio avrebbe fatto meglio a non sguainare la spada. Ha infatti tralasciato un elemento che definirei quasi un dato di fatto: quando si tratta pubblicamente un personaggio della popolarità di Emma si deve avere la consapevolezza che si sta parlando anche alle persone che la seguono. Non c’è più un “tu e io”, ma piuttosto un “tu, io e altre decine di migliaia di persone”. In più, avendo commentato il look della cantante, ha coinvolto nel discorso un’intera generazione fatta di lotte contro il body shaming. Del resto è sufficiente recuperare qualche intervista recente per cogliere l’attualità dell’argomento, un tema “caldo” pronto a sbucare fuori da dietro l’angolo ogni volta che si commenta l’aspetto di qualcuno. Insomma, criticare il corpo di Emma credendo di andare incontro ad un tête-à-tête è una mossa quanto meno ingenua.


Ma quindi dove ha sbagliato? Perché le sue parole sono state così tanto criticate? Forse è necessario spiegare brevemente da dove nasce il body shaming. Per anni abbiamo infatti convissuto con l’idea che fosse il corpo a dover cambiare a suon di diete e palestra per stare dentro un vestito. Solo nell’ultimo periodo ha preso sempre più piede una filosofia inversa, quella che il fisico dovesse essere valorizzato e non modificato. L’errore di Davide Maggio, quindi, è stato proprio nel partire da una gamba troppo “importante” piuttosto che da una calza (a suo modo di vedere) incapace di esaltare le curve della cantante.


Se volessimo spezzare una lancia a favore del giornalista, potremmo dire che non è l’unico: in molti faticano a comprendere appieno la linea che divide l’opinione personale dal commento fuori luogo. Questa difficoltà deriva da una cultura con cui abbiamo convissuto per anni, secondo cui commentare ogni minima oscillazione del corpo era ed è tuttora considerato normale. Solo di recente le cose hanno cominciato a cambiare e non per tutti è facile stare al passo con i tempi. Ancora oggi, infatti, viene automatico giustificarsi con “il mio era un commento estetico normalissimo”, non capendo che, così facendo, si sta solo soffiando su un fuoco già bello alto.


Ma è davvero necessario capire a fondo una questione per poter ammettere di aver sbagliato? O si può anche solo accettare di aver fatto uno scivolone, senza dover necessariamente sentire una causa come propria?


Chiedere scusa richiede una grande capacità di svestirsi dei propri panni e mettersi in quelli di chi si ha di fronte. Eppure, non tutti ci riescono: per alcuni, sporcare la propria immagine riconoscendo i propri errori è semplicemente intollerabile. Per questo ci si trova di fronte ad un dilemma: chi tutelo? Me o l’altro? Un dubbio lecito che, tuttavia, nelle sue forme più estreme, diventa rappresentativo dell’idea che ammettere un errore è un pericolo per la propria incolumità. È vero, esporsi è un rischio, ma proprio per questo diventa la conferma che mostrarsi vulnerabili è una delle più grandi conferme della nostra solidità.


Paul Krugman, professore dell’Università di Princeton, parlava della malattia dell’infallibilità, ovvero l’ostinazione di mostrarsi sempre efficienti e indistruttibili. Mostrarsi senza macchia e senza paura a prescindere dalle reazioni di chi abbiamo di fronte ci permette di mantenere il controllo sulle nostre emozioni e, di conseguenza, sui commenti dell’altro. Nulla può intaccare il nostro scudo: citando il giornalista, noi siamo così, punto. Eppure si può crescere ed evolvere insieme al mondo circostante solo accettando di essere scalfiti. In questo caso, Davide Maggio avrebbe potuto da una parte riconoscere di non comprendere o addirittura non condividere fino in fondo le dinamiche riguardanti la polemica del body shaming e, dall’altra, ammettere che è proprio questo che lo ha portato a ferire qualcuno.


Quello dei social è un mondo di estremi che ti dà e toglie tutto con uno schiocco di dita. Sicuramente nel giornalista cova la paura di perdere la faccia e tutto ciò per cui ha lavorato a causa di una shitstorm. Del resto, è proprio questo che lo ha spinto a difendersi piuttosto che chinare il capo e dire “mi dispiace”. Tuttavia, per quanto la reazione sia umanamente comprensibile, dovrebbe fermarsi un attimo e realizzare che per ribaltare la situazione la differenza la fa non tanto ciò che è stato già detto, quanto, piuttosto, ciò che si può ancora aggiungere.


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