Rapporti tossici - La teoria dell'attaccamento è la risposta?
Quante volte abbiamo sentito parlare di “rapporti tossici” e di “dipendenza affettiva”? Per non parlare poi della combo fatale “narcisista predatore” e “vittima dipendente”. Dinamiche di cui abbiamo letto talmente tanto sui media da arrivare a credere di saperne di tutto e di più. La realtà, però, è che gli “accoppiamenti” sono infiniti, così come sono infinite le personalità di ognuno di noi.
Eppure, perfino la teoria dell’attaccamento di John Bowlby, uno dei capisaldi della psicologia, finisce per parlare “solo” di quattro stili relazionali. Qual è allora il punto di congiunzione tra la necessità di schematizzare (insieme alla conseguente tendenza a generalizzare…) e la complessità effettiva del mondo che ci circonda?
Andiamo con ordine: quando Bowlby parla di “attaccamento” si riferisce ad una “connessione psicologica duratura tra esseri umani” nelle prime fasi della crescita.
La psicologa Mary Ainsworth ha quindi ideato una situazione sperimentale chiamata Strange Situation per identificare gli stili di attaccamento del bambino.
Per chi masticasse poco l’inglese, Strange Situation significa “Situazione Strana”. Non a caso, l’esperimento consiste nel ricreare uno scenario del tutto inusuale per il piccolo, in cui la madre esce ed entra dalla stanza. Il fine ultimo è quello di monitorare reazioni psicofisiologiche così da individuare i diversi stili di attaccamento citati dal famoso psicologo.
Ad esempio, se durante l’esperimento il bambino si mostra tranquillo ogni volta che il caregiver non è nei dintorni e felice quando ricompare, si parla di un attaccamento sicuro. In altri casi, invece, l’infante può mostrarsi del tutto indifferente all’eventuale assenza o presenza della madre, un distacco che viene solitamente inquadrato come proprio dell’attaccamento insicuro-evitante. Talvolta, poi, si assiste ad un’estrema preoccupazione e tensione, reazioni solitamente associate ad un attaccamento insicuro-ambivalente. Infine, se il bambino mette in atto comportamenti disconnessi tra di loro, come cadere per terra o paralizzarsi, tendenzialmente si ipotizza un attaccamento disorganizzato.
Tuttavia, la portata rivoluzionaria della teoria dell’attaccamento non è legata esclusivamente all’importanza della relazione tra caregiver e infante, ma soprattutto al fatto che viene “appreso” uno stile relazionale successivamente riproposto in età adulta attraverso altre relazioni significative.
Quindi, in teoria, un attaccamento sicuro porta a dare valore sia ai propri bisogni di autonomia che di relazione, uno stile evitante a prediligere l’individualità alla condivisione con l’altro, uno stile ansioso a diventare molto dipendenti dalla relazione e uno stile disorganizzato ad assumere un comportamento instabile.
Insomma, sembra che, nella sua semplicità, questo schema sia in grado di dare tutte le risposte che cerchiamo ai nostri dilemmi relazionali. Siamo quindi tutti destinati a subire le conseguenze del rapporto con il nostro caregiver e a riproporle indistintamente a tutti coloro che incontreremo nella nostra esistenza? Bowlby ci ha regalato la possibilità di individuare e prevenire il rischio di creare un cosiddetto “rapporto tossico”? La risposta è no. O meglio, non proprio.
Tutte le teorie, anche quelle più geniali, si accompagnano ad un enorme rischio: quello della generalizzazione. Invece di diventare interessanti punti di partenza da cui poi spingersi ad un ulteriore approfondimento, si trasformano in punti di arrivo in cui tutto è ormai deciso e definito.
Ovviamente questo discorso vale anche per i rapporti tossici e la celebre dipendenza affettiva: i due principali protagonisti (almeno secondo Internet), ovvero il narcisista e la vittima, vengono sempre descritti nello stesso modo. Le sfumature non esistono, così come non esiste la possibilità che, per quanto certe modalità relazionali possano essere ricorrenti, i vissuti di ogni singola persona siano diversi.
Sembra quasi che le teorie, da “mappe” utili che la letteratura ci fornisce per osservare il mondo con una maggiore ampiezza dello sguardo, finiscano per diventare utili escamotage per evitare la fatica di guardare all’interezza della persona.
Ciò che però a molti sfugge è che alla base di questo processo di semplificazione ci sono anni di osservazione e di studio di quella che è un’enorme complessità.
Gli schemi, quindi, possono darci degli indizi per notare certe dinamiche e cogliere l’occasione di acquisire una maggiore consapevolezza di sé e di come si possono sentire gli altri. Alla fine dei conti, però, nessuna teoria può fornirci delle vere e proprie risposte. Il “lavoro sporco”, ovvero il coraggio di esplorare, approfondire, buttarsi nelle relazioni e vivere la vita fino in fondo, starà sempre a noi.