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Schizofrenia: cambiare il nome può servire? Il problema della diagnosi tra gli operatori sanitari

Non troppo tempo fa, il Post ha pubblicato un articolo in cui è stata esplorata la possibilità di cambiare il nome alla “Schizofrenia”. Il motivo? Pare che il termine si porti dietro troppi stereotipi negativi che non solo gravano sulla percezione che si ha dei pazienti schizofrenici, ma anche su quella che questi ultimi hanno di sé stessi. Alcuni Paesi hanno già preso provvedimenti a riguardo, come ad esempio il Giappone, che ha deciso di sostituirlo con “disturbo di integrazione” nel 1997.


In effetti, dobbiamo ammetterlo: nell’immaginario collettivo la schizofrenia viene associata alla tipica figura del “malato mentale”, quello che si dimena disperatamente nella sua camicia di forza, alternando urla deliranti a stati catatonici. Sembra, inoltre, che lo stigma sia talmente forte da percepire questi soggetti come “violenti” quando, in realtà, spesso sono proprio loro ad essere le prime vittime di violenza.


Il tema, tuttavia, rimane piuttosto spinoso: modificare il termine “Schizofrenia” può effettivamente cambiare qualcosa?


Alcuni dicono di sì, altri di no. Qualora vogliate approfondire, nell’articolo vengono spiegate chiaramente le motivazioni di entrambe le parti. Più si leggono le rispettive spiegazioni, più diventa chiaro quanto sia difficile prendere una decisione “giusta” (ammesso che esista, tra l’altro).


C’è tuttavia un aspetto solamente accennato nell’articolo, anche se estremamente rilevante, che riguarda il ruolo degli operatori sanitari. Raquelle Mesholam-Gately, psicologa dell’Università di Harvard, ha segnalato un frequente ritardo nell’inizio delle terapie, causato dalla titubanza dei medici nel momento in cui devono comunicare la diagnosi. Pare che l’immagine associata al disturbo sia talmente negativa da creare difficoltà tra i professionisti ancor prima che tra i pazienti. A questo punto, sorge un dubbio: tralasciando per un momento la questione del disturbo in sé… Che il problema non sia proprio l’approccio che si ha verso le “diagnosi” in generale? Che effetto hanno sulla nostra mente?


Quando pensiamo al mondo della medicina, siamo abituati a pensare in termini lineari: si identifica il problema e si trova una soluzione. Si rompe una gamba? Due mesi di gesso. Hai la febbre? Si prende la tachipirina. Questo modo di ragionare, però, non può essere trasferito tale e quale nell’ambito della salute mentale, perché non è possibile approcciarsi al paziente puramente in termini di inquadramento e risoluzione. È un approccio che non fa bene agli operatori sanitari, perché il rischio è proprio quello di trattare il soggetto come se incarnasse la diagnosi, senza quindi creare una relazione sulla base della sua individualità ma, piuttosto, aggrappandosi alle caratteristiche descritte sul manuale diagnostico.


Prendiamo, ad esempio, i disturbi alimentari. Si legge spesso di quanto chi soffra di un problema di alimentazione tenda ad avere caratteristiche “manipolative”. A quel punto, sarebbe molto semplice trattare tutti coloro che ne soffrono allo stesso modo. Tuttavia, quello che, al contrario, si può fare, è trattare questi pazienti considerando prima di tutto la loro storia, vedendoli come persone che portano un problema e non il contrario. Il fatto che possano avere tendenze manipolative non appartiene necessariamente a tutti e non è di certo rappresentativo della loro personalità. Anche perché, nel caso in cui le avessero, sarebbe soprattutto interessante capire che cosa ha portato loro a svilupparle.


Questo approccio alle diagnosi, tra l’altro, non fa bene ai pazienti stessi, che tendono a vedersi sempre più come delle “vittime” dei propri sintomi, arrivando ad usare la patologia come giustificazione per non provare nemmeno più a stare meglio con sé stessi.

Inutile dire che, ovviamente, il problema non è tanto di coloro che soffrono e chiedono aiuto, quanto della narrazione che circonda la malattia mentale, trattata come qualcosa di ingestibile di cui si può essere solo in balia.


Il problema, in realtà, non sono neanche le diagnosi in sé. Sono fondamentali per poter comunicare con gli altri professionisti e consentire un trattamento che sia efficace a 360 gradi, soprattutto in un ambiente veloce e dinamico come quello ospedaliero. Semmai, è il rapporto con la diagnosi che è da rivedere. Bisogna tenere a mente che è un punto di partenza, non un punto di arrivo: da un inquadramento iniziale deve seguire, poi, un approfondimento necessario e indispensabile per conoscere meglio il paziente e la sua storia.


L’articolo si conclude con l’opinione di Lisa Dailey, direttrice del Treatment Advocacy Center: “Il linguaggio è importante, ma il modo migliore per rimuovere lo stigma sulla schizofrenia è sviluppare terapie migliori per sempre più persone”. Questa è una frase rischiosa, che potrebbe innescare il solito circolo del “più si riducono i sintomi, più vengo accettato e più si abbassa lo stigma”. È un po’ come se ci si scordasse che chi è chiamato a dover fare i conti con la propria condizione, alla fine, è il paziente stesso. Gli operatori sanitari sono tenuti a supportare un percorso di cura e crescita che lo possa fare stare meglio, ma la percezione che il soggetto avrà del proprio stato mentale sarà fortemente influenzata da quella che hanno loro.


Essere dei professionisti non è facile: viene richiesto di assumersi delle grandi responsabilità in un momento in cui, chi chiede aiuto, sta vivendo un periodo di estrema vulnerabilità. Proprio per questo motivo è la visione che si ha della malattia e, quindi, della diagnosi che deve cambiare: se i pazienti sentiranno che c’è qualcosa di cui aver paura o, peggio, di cui vergognarsi, si fideranno di quella sensazione. Nel caso in cui, invece, percepissero di essere all’inizio di un viaggio che richiede loro tanta fatica ma anche tanta motivazione nel seguire le terapie, tutto assumerebbe un’ottica diversa. Verrebbero messe in primo piano le loro potenzialità e non i loro disturbi. Verrebbe data loro fiducia. È allora che la diagnosi può diventare l’inizio di un percorso, in cui l’operatore sanitario e il paziente accettano di segnare il tracciato insieme, passo dopo passo.


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